mercoledì 29 giugno 2011

Dialogo sull’autenticità e l’uso di stratagemmi

Il dialogo che segue è un compendio delle conversazioni sostenute con persone diverse in più di un workshop e sessione di consulenza personale. Pubblicandolo credo di fare cosa gradita a molti amici che hanno qua e là sollevato questioni analoghe. Devo una parte delle idee qui esposte ai miei Maestri e, in primo luogo, a Giorgio Nardone, virtuoso dello stratagemma.

La situazione è quella in cui un certo Ulisse illustra il ricorso agli stratagemmi come chiavi di sblocco, se non di soluzione, di situazioni problematiche.
Un certo Aiace, perplesso, prende la parola.

Aiace: Ma il ricorso a degli stratagemmi non mina la nostra autenticità?

Ulisse: Dipende: cosa intendi precisamente con “autenticità”?

Aiace: Be’: essere se stessi, non fingere di essere quello che non si è.

Ulisse: E come fai a sapere quando sei te stesso?

Aiace: Me ne accorgo, è semplice: so quando sono me stesso e quando fingo.

Ulisse: Hai ragione, ho posto male la domanda. Mettiamola così, allora: quando non sei te stesso chi o cosa sei?

Aiace: E’ ovvio: sono sempre io, che però sto fingendo, mi sto forzando.

Ulisse: E cos’è che stai forzando nello specifico?

Aiace: Sto forzando me stesso ad essere quello che non sono.

Ulisse: E chi è che sta forzando te stesso?

Aiace: (lievemente scocciato) Ma sempre io, chi altri?

Ulisse: Possiamo dire che c'è un te stesso, o una parte di te stesso, che vuole forzare un'altra parte di te stesso?

Aiace: Si è un po' così che accade.

Ulisse: E come fai a sapere chi dei due te stesso, o delle due parti, è più te stesso, e quindi più autentico, dell'altra?

Aiace: (ci pensa su) In effetti non è una questione banale. A primo acchito direi che la parte più autentica è quella con la quale mi identifico meglio, quella che sento più mia.

Ulisse: Se ho capito bene, di fronte ad una situazione che potrebbe implicare l'uso di uno stratagemma, in te si apre una sorta di conflitto. C'è un te stesso un po' "tarocco" che dice "Ehi, perché non usi quello stratagemma?" e un te stesso più autentico che risponde "Ma con chi credi di avere a che fare? Io non sono quel tipo di persona che ricorre a stratagemmi!".

Aiace: Sì, anche se non c'è davvero una lotta tra due parti di me: il più delle volte, semplicemente non applico nessuno stratagemma e faccio come mi viene spontaneo fare.

Ulisse: E riesci sempre nel tuo intento? Voglio dire, facendo quello che ti viene spontaneo riesci sempre a risolvere?

Aiace: No, ovviamente, no. Non sempre.

Ulisse: Ed è mai capitato che prevalesse la parte "tarocca"?

Aiace: Raramente, ma quando capita ho la sensazione di fare qualcosa che non va, che non mi appartiene. Insomma non mi viene spontaneo, mi devo forzare.

Ulisse: Capisco. Posso farti una domanda che ti sembrerà un po’ strana?

Aiace: Fai pure.

Ulisse: Quando eri piccolo, piccolo, diciamo… quando avevi un mese, cosa facevi se avevi fame?

Aiace: E chi se lo ricorda?

Ulisse: Presumibilmente?

Aiace: Be’ immagino che piangessi.

Ulisse: E cosa accadeva dopo?

Aiace: Veniva la mamma e mi dava il latte.

Ulisse: Possiamo affermare che il tuo comportamento si rivelava efficace per ottenere il cibo?

Aiace: Sì, ma quello è un comportamento innato, non è che piangessi consapevolmente con l’obiettivo di ottenere il cibo.

Ulisse: Infatti, ma poi è accaduto qualcosa, tra quel momento ed ora, per cui, presumo (sorride), adesso non piangi più per ottenere del cibo.

Aiace: (sorridendo) Sì, certo, a meno che non sia davvero affamato.

Ulisse: Adesso sei grande e ti comporti diversamente; ma quand’è che hai smesso di piangere per ottenere il cibo?

Aiace: Di preciso non lo so, non me lo ricordo.

Ulisse: Be’ non ha importanza la data, piuttosto che cosa è avvenuto, secondo te, perché tu smettessi di chiedere il cibo con il pianto?

Aiace: Che ne so, probabilmente ho imparato a parlare, a dire “pappa”, ad indicare con il dito. O forse i miei hanno cominciato a mostrarsi un po’ scocciati (sorride).

Ulisse: In ogni caso possiamo dire che qualcosa è cambiato in te (lo sviluppo di nuove capacità) o negli altri (i tuoi che si scocciavano) per cui il vecchio comportamento si è rivelato inefficace o almeno non economico.

Aiace: Sì, è così.

Ulisse: E tu, di conseguenza, hai adottato un nuovo comportamento più funzionale.

Aiace: O può anche essere stato un caso, magari ad un certo punto ho indicato la pappa o ho detto "pappa" ed i miei, tutti contenti, mi hanno dato la pappa.

Ulisse: Certo, le prime volte può essere accaduto tutto per caso, ma poi hai visto che funzionava meglio del pianto e hai cominciato a farlo di proposito.

Aiace: (annuisce)

Ulisse: E poi, (sorridendo) è successo qualcos'altro nella tua vita o questo è stato l'unico cambiamento?

Aiace: Sì, sono cambiate molte altre cose, da allora.

Ulisse: Chiaro: cambia il comportamento degli altri, cambiano gli stimoli ambientali o semplicemente il nostro modo di percepirli, sviluppiamo nuove capacità e cambiano anche i nostri comportamenti, le nostre idee, le nostre convinzioni. Per esempio, c’è qualcosa che credevi quando eri adolescente e a cui adesso non credi più?

Aiace: Be’, come tutti gli adolescenti, credevo di poter cambiare il mondo. Adesso… non è che non ci credo più, cioè, oggi credo di poter contribuire a rendere il mondo migliore, ma non nei modi in cui lo credevo allora.

Ulisse: E qualcosa su cui invece hai proprio cambiato idea? Anche non riferita all’adolescenza. Diciamo, in generale, nella tua vita. Ci sarà stata, immagino, qualche situazione di quelle che ti fanno cambiare totalmente idea su qualcosa.

Aiace: Vedo dove vuoi arrivare. Certamente, si cambia; ci sono molte cose che credevo vere e giuste e ora non le ritengo più tali, ma sulle cose importanti, quelle che contano di più per me, non ho mai cambiato idea. Su quelle sono rimasto sempre me stesso.

Ulisse: Certo, certo, è naturale ed è giusto che sia così. Infatti sono proprio queste cose importanti, queste cose che contano, a contribuire ad identificarti come la persona che sei.

Aiace: Sì, i miei valori, le cose in cui credo; su questi sono inamovibile.

Ulisse: Bene, riassumendo, tu senti di essere autentico quando sei in linea con i tuoi valori più costanti, con le cose in cui hai sempre creduto e cui non hai mai derogato nella tua vita.

Aiace: Sì. Se dovessi comportarmi in un modo che è in contrasto con i miei valori, non mi sentirei a posto, sentirei di star fingendo, di essere quello che non sono.

Ulisse: E questo perché il “non fingere” è proprio una di quelle cose importanti, che ti appartengono e ti caratterizzano.

Aiace: Esatto.

Ulisse: Ma non l’unica.

Aiace: Che vuoi dire?

Ulisse: Che ce ne sono altre che potrebbero rivelarsi più importanti. Immagino che ti sia capitato di dire qualche bugia bianca.

Aiace: Qualche volta, ma non è stato facile mentire.

Ulisse: Sono sempre situazioni difficili. In ogni caso, lo hai fatto. Magari perché in quel momento era in gioco qualcosa di più importante.

Aiace: Certo, se è in gioco il benessere o la vita di un'altra persona, sono anche capace di mentire. Ma non mi viene spontaneo.

Ulisse: Non può venirti spontaneo. E' una cosa che è contraria ai tuoi principi.

Aiace: Già.

Ulisse: Ora, cosa c'è nel ricorso ad uno stratagemma che contrasta i tuoi principi?

Aiace: (ci pensa un po') Be', proprio il fatto che non mi viene spontaneo. E' qualcosa di artefatto, capisci?

Ulisse: E tra i tuoi principi c'è quello di agire sempre spontaneamente.

Aiace: Sì, quando posso: ovviamente questo non è sempre possibile.

Ulisse: Ma torniamo a quando eri molto piccolo. Ad un certo punto hai imparato a usare la forchetta e il cucchiaio. Poi sei andato a scuola e hai imparato a leggere e a scrivere. Poi hai continuato ad apprendere cose nuove e così via...

Aiace: Sì.

Ulisse: E quando hai imparato ad usare il cucchiaio o a scrivere, ti è venuto subito spontaneo?

Aiace: No, all'inizio ho dovuto soffrire un bel po'. Soprattutto per imparare a scrivere.

Ulisse: Eppure adesso puoi scrivere anche senza guardare il foglio, puoi prender nota mentre stai ascoltando una persona e questo è senz'altro comodo, no?

Aiace: (sorride)

Ulisse: Ma all'inizio, no. All'inizio hai dovuto faticare e magari non ne vedevi neanche chiaramente l'utilità. E nonostante questo, hai continuato ad esercitarti, finché, un bel giorno, ti sei accorto che stavi scrivendo senza neanche pensare a come farlo. Anzi, forse non te ne sei nemmeno accorto: è successo e basta.

Aiace: Certo, a forza di sbatterci la testa…

Ulisse: Con l'esercizio, ci sei riuscito. Con l'applicazione, una cosa che non ti riusciva spontanea, improvvisamente, lo è diventata; a tal punto che oggi non ci pensi su due volte ad appuntarti un numero di telefono o un indirizzo su un post-it. Voglio dire non c'è una parte di te che dice "Ehi, scrivere non è spontaneo; tra i tuoi principi c'è 'evita di fare cose che non ti vengono spontanee'!" e la parte autentica "Va bene smetto subito!". Sto scherzando naturalmente.

Aiace: capisco. Tu dici che ogni cosa, all'inizio, quando cominciamo a farla, è tutt'altro che spontanea. Solo con l'esercizio costante lo diventa. Però…

Ulisse: Però?

Aiace: Perché, per quanto riguarda la scrittura, la lettura, e le cose che hai menzionato, questo mi pare naturale, invece per lo stratagemma… per lo stratagemma, c'è qualcosa in me che si rifiuta?

Ulisse: Vediamo; a cosa ti fa pensare la parola "stratagemma"?

Aiace: A qualcosa di innaturale, appunto. Una specie di imbroglio. Insomma, perché mai uno dovrebbe far ricorso ad uno stratagemma, non si può agire "spontaneamente"? Sì lo so che non c'è niente di spontaneo che non sia stato acquisito in un modo o nell'altro. Ma, intendo dire, non si può agire in maniera diretta? Perché dovrei fari ricorso a dei sotterfugi?

Ulisse: Qual è per te la maniera diretta?

Aiace: Be' quella che mi viene naturale, spont... (si interrompe) Ho capito: la maniera diretta, anche quella, non sarebbe altro che un comportamento acquisito, appreso…

Ulisse: E magari all'inizio non era affatto diretta o spontanea.

Aiace: Eppure…

Ulisse: Quando sei di fronte ad una situazione problematica, ti viene spontaneo agire come hai sempre fatto: quella che hai chiamato "la maniera diretta"; che hai comunque appreso, ma che ora ti viene naturale, spontanea. E, se lo è diventata, è anche perché l'hai applicata con successo in molte situazioni: si è rivelata efficace. Ed infatti io non ti sto suggerendo di abbandonarla, ma di prendere in considerazione le situazioni in cui quella maniera non si rivela efficace. Tu fumi? (ndr e questo toglie ogni dubbio sul fatto che si tratti di quell’Ulisse e quell’Aiace)

Aiace: No.

Ulisse: Hai mai provato a dire ad un fumatore di smettere di fumare? Magari a qualcuno che soffre anche di cuore? Sarebbe, per così dire, "la maniera diretta", tu glielo dici, lui riconosce che è sbagliato fumare nelle sue condizioni e smette di farlo. In quanti casi credi che funzionerebbe?

Aiace: Nessuno.

Ulisse: Forse nessuno no. Ma certamente in pochi casi. La maggior parte delle persone che fumano è ben conscia dei danni che provoca alla salute, propria e degli altri. Ma c'è qualcosa che è più forte di questa argomentazione logica. C'è qualcosa che apparentemente sembra non seguire nessuna logica, ma che forse segue soltanto una logica diversa, una logica cui non siamo “abituati”, una logica, appunto, "non ordinaria". Ora, cercare di applicare a in questi casi "la maniera diretta", l'argomentazione comune, quella che ci viene spontanea, porterebbe ad un sicuro fallimento, non aiuterebbe affatto la persona e forse peggiorerebbe addirittura la situazione. Come togliere un chiodo dal muro usando una livella. Dobbiamo dotarci dello strumento giusto… e gli stratagemmi ce ne offrono una vasta gamma. Dunque perché non cominciare ad utilizzarli ed applicarsi con costanza finché non diventino anch'essi spontanei, finché non diventino parte di noi? Del resto, con le parole del terapeuta Giorgio Nardone “La spontaneità non è che l’ultimo apprendimento divenuto acquisizione”.

Aiace: Ma facendo così non si finisce per diventare subdoli, doppi… insomma troppo "costruiti"?

Ulisse: Cos'è che rende subdola una persona, le intenzioni o i mezzi che utilizza?

Aiace: Le intenzioni, certo, ma anche il fatto di possedere i mezzi, può indurci in tentazione.

Ulisse: Sì, è il rischio che dobbiamo correre. Del resto hai accettato già di correrlo quando hai imparato a parlare o, peggio, a scrivere, è risaputo infatti che "ne uccide più la penna che la spada". Non si può tornare indietro e neanche evitare di andare avanti mentre tutto il resto cambia. Sei naturalmente libero di imparare gli stratagemmi e di utilizzarli per aiutare persone in difficoltà (o anche te stesso) oppure tenertene alla larga privandoti di questa possibilità.

mercoledì 9 marzo 2011

Perché ritengo criminale Il Segreto

Il Segreto, una delle più grandi e purtroppo diffuse imposture confezionate dall’industria del wellness, appiattisce in una misera “formula” la fine opera di mistici, alchimisti, scienziati, letterati e filosofi.
La legge dell’attrazione, così come esposta in quel testo e nei testi che di esso sono codazzo (La chiave del Segreto, Il Segreto della Chiave del Segreto, etc.), è un’approssimazione molto grossolana di concetti che appartengono a ben più nobili tradizioni.

L’idea presentata in The Secret è quella di un universo, ma sarebbe meglio scrivere Universo, che si organizza intorno ai nostri desideri e ai nostri pensieri.
Nel video The Secret, questa idea è brutalizzata dall’esempio di un tizio che si siede in poltrona un tanto al giorno mimando di guidare l’auto dei suoi sogni. Secondo gli autori, l’Universo “accoglierebbe” questa fantasia e si disporrebbe a concretizzarla.
Fin qui niente di male, la tesi, come del resto molti aspetti della nostra vita, non è falsificabile: qualcuno ci crede, altri la trovano risibile, e tutto sommato, anche per quelli che non ci credono, potrebbe rivelarsi efficace indipendentemente dalla sua scientificità in virtù dell’effetto “profezia che si auto-avvera” o dell’effetto Pigmalione.
Resterebbe, certo, da distinguere tra il desiderio di apparire più carismatico, che potrebbe, in talune circostanze, aiutarmi a diventarlo, ed il desiderio di saper guidare un aereo che, senza un adeguata formazione, finirebbe per danneggiare me stesso e gli altri.
Dobbiamo comunque, per onor del vero, prendere atto del fatto che nessuno, nel video o nel libro, sostiene che si possa imparare a volare immaginandolo o mimandolo seduti comodamente in poltrona (e questo lo sapevano già gli autori del proverbio “aiutati che Dio ti aiuta”).

Ma torniamo al tizio dell’automobile e supponiamo che questi, non appena l’Universo abbia esaudito il suo desiderio, investa involontariamente un pedone e lo uccida.
Viene da domandarsi: intorno a cosa l’Universo si è organizzato in questo caso?
Si potrebbe rispondere che non sempre l’Universo si organizza intorno ai desideri di qualcuno, a volte decide per conto suo e quel giorno ha deciso così. O ancora potremmo pensare che qualcuno desiderasse al morte di quella persona (non esclusa la persona stessa) e che l’Universo l’abbia accontentato. O ancora che quella morte abbia un senso, un’utilità che soltanto l’Universo conosce. O ancora che talvolta l’Universo non entri proprio in causa.
Altre ipotesi si possono formulare, tutte equiprobabili, anzi, tutte ugualmente a-probabili, dal momento che non è possibile verificarne la fondatezza (e mi preme qui ricordarvi che a scrivere non è uno strenuo difensore della scienza, ma una persona che annovera tra i suoi interessi lo sciamanesimo ed i tarocchi e che è piuttosto critico nei confronti di chi considera il metodo scientifico l’unico degno di rispetto).

La questione su cui vi invito a riflettere è come – e se - raccontereste la legge dell’attrazione ad un bambino affetto sin dalla nascita da una grave malattia (il paragone estremo mi è suggerito dallo stesso Segreto, in cui si portano esempi di guarigioni miracolose da malattie ritenute incurabili).
Immagino già la risposta di alcuni sostenitori del Segreto: “gli direi che se vuole, se è davvero sua intenzione guarire, allora può farlo”. Niente da obiettare, anzi, il proposito è meritorio. Ma la mia considerazione non riguarda come agirebbe la legge dell’attrazione d’ora in poi se lui lo volesse, bensì come ha agito a partire dalla sua nascita per portarlo al punto in cui sta adesso (rinunciando per ora a scomodare le vite passate che pure qualcuno tirerebbe in ballo).
Immagino ancora che i sostenitori obiettino “cosa importa sapere e, ancor meno, far sapere al bambino come è arrivato a star male? L’importante è che sappia che, se lo desidera davvero, può guarire”.
E ancora una volta devo concordare sulla buona intenzione, ma ammesso che al bambino sia meglio non rivelare il modo in cui l’Universo si sarebbe organizzato affinché lui nascesse malato, lo sarebbe anche per noi?
Intendo dire, sarebbe meglio non indagare oltre ed ammettere dunque che l’Universo segue logiche imperscrutabili e del tutto diverse da quelle che noi possiamo immaginare (ipotesi di tutto rispetto purché rimanga nell’ambito della religione e non pretenda di sconfinare in quello della fisica dei quanti), oppure dovremmo trovare, o almeno tentare di trovare, una qualche risposta soddisfacente alla questione, che, pur nel suo prescindere da una forma di scientificità, non faccia vistosamente a pugni con essa?

A questo punto mi fermo perché coloro che abbiano “sprecato” un po’ del tempo della loro vita su un testo di filosofia, di teologia o più semplicemente siano stati per qualche minuto sotto una pergola a parlare di qualcosa di diverso dalla Lazio e dalla Roma, non faticheranno a riconoscere che l’intera questione altro non è, scomodando Guccini, che un “dire cose vecchie con il vestito nuovo” o più correttamente, considerando il business che c’è dietro al Segreto, un vendere cose vecchie con il vestito nuovo.
Le “cose vecchie” sono rappresentate in questo caso dall’ossessione di poter avere il pieno controllo sulla propria vita e sul proprio destino, con tutte le implicazioni che la vexata quaestio circa l’origine e il posto che avrebbe il “male” (o quanto consideriamo tale) nell’universo, pone.
Il "vestito nuovo", invece, è una discutibile vulgata della fisica dei quanti, materia che, per sua natura, pare si presti ad ogni utilizzo, proprio ed improprio, dal momento che chiunque può dirne qualsiasi cosa, tanto nessuno ci capisce niente (e ad affermarlo non sono io ma nientemeno che Richard Feynman).
Ben inteso, nessuno vuole negare le immense prospettive che questa branca della fisica ha aperto e continua ad aprire, ma io, in buona compagnia, credo che sia necessario essere cauti nel procedere ad arbitrarie trasposizioni che pretendano di essere qualcosa di più di calzanti metafore.

Comunque, a prescindere dalla liceità di queste operazioni, sorprende l’effetto straordinario che tale “riverniciatura” sortisce su quelle stesse persone che, soltanto a titolo di esempio, ritengono la religione cristiana ed il suo Dio una (tutt’al più) bella invenzione, ma non esitano un solo istante ad assumere per reale e provato l’Universo di The Secret.
Spesso sono gli stessi che “scoprono”, leggendo l’ultimo successo commerciale sull’argomento, che Gesù aveva fratelli. “Meraviglia! E la Chiesa ce lo aveva sempre tenuto nascosto!” Inutile far notare loro che era così ben nascosto che bastava leggere, neanche tanto attentamente, i vangeli o le epistole di Paolo per nutrire qualche sospetto in merito.
Riguardo alla Chiesa poi, il dibattito era aperto dalla notte dei tempi e niente affatto segreto; ma quanto più affascinante l’ipotesi del complotto, dell’occultamento, del segreto.
Il Segreto, appunto.
Del resto basta dare un’occhiata anche solo al trailer di The Secret che echeggia Codici da Vinci e Indiana Jones e Templi Maledetti e Egizi e Templari e Cagliostri e Cabalisti e Gnostici e Alchimisti in una confusa baraonda di personaggi, attribuzioni, verità e misteri.

Azzardo che dietro il successo di The Secret e di altre operazioni simili si celi l’insana convinzione dell’uomo contemporaneo di poter accedere al suo potenziale simbolico attraverso un atto di appropriazione.
In altre parole, imparo a piegare l’Universo al mio volere, lo posseggo, lo governo. L’esatto contrario di quanto tutte le grandi tradizioni, a cui, tra l’altro, The Secret sostiene di ispirarsi, hanno manifestato da sempre ed in alcuni casi “praticato” e cioè la possessione dell’uomo da parte del simbolo.

L’uomo non ha il pieno controllo della propria vita e fargli ritenere di poterlo avere è criminale poiché lo carica di una responsabilità insopportabile che, ad un’attenta disamina, sconfina nella colpa

(si pensi ad esempio all’apparentemente innocuo desiderio, concretizzato dall’Universo, di veder volare una farfalla e al conseguente tsunami che il battito d’ali di quest’ultima finisce per provocare dall’altra parte del mondo: il cosiddetto “butterfly effect”).

Forse, invece, faremmo bene ad attenerci all’invito di Nietzsche e a non caricare l’uomo di pesi che non può sopportare; inaugurando, in questo modo, un’epoca di maggiore delicatezza nei confronti di noi stessi e degli altri.