lunedì 29 ottobre 2012

Non sono portato - gli effetti deleteri di una convinzione limitante

Le convinzioni danno direzione alla nostra vita e contribuiscono a conferirle un senso, ma quando si tratta di convinzioni limitanti possono peggiorarne la qualità.


Giorni fa mi è capitato di ascoltare una conversazione tra mio figlio, di tredici anni, e due suoi compagni di scuola.
Parlavano di materie scolastiche e del rendimento di altri loro compagni.
Un frammento di conversazione mi è rimasto impresso e lo riporto di seguito il più fedelmente possibile; inflessione romanesca compresa!

"Oh, oggi M. ha preso quattro all'interrogazione di matematica."
"Ma quello non è proprio portato pe' la matematica."
"Certo che mo' quando j'o dice ar padre..."
"Lo so, ma se non sei portato, c'hai poco da fa'! Io per esempio c'ho lo stesso problema coll'italiano. Non j'a faccio proprio!"

E la conversazione è continuata per un po', con variazioni minime sul tema "essere portati per una materia" e relative conseguenze.

Per la mia professione ed anche per l'attenzione che presto alle conversazioni, mi capita continuamente di constatare quanto le convinzioni entrino in gioco nei nostri processi decisionali così come nei giudizi che esprimiamo su di noi e sugli altri.

Sicuramente le convinzioni danno direzione alla nostra vita e contribuiscono a conferirle un senso. Ma quando, come in questo caso, si tratta di convinzioni limitanti, queste possono peggiorare la qualità della vita delle persone che ne sono "portatrici".

Esaminiamo per un attimo la convinzione che hanno espresso i nostri ragazzi.
Potremmo formularla pressappoco così:

Per riuscire in una materia di studio devi essere portato.

Notate che ho scritto "riuscire" e non "avere successo" e questo è suggerito dalle espressioni "c'hai poco da fa'" e "non j'a faccio proprio", con le quali uno dei ragazzi esprime tutta la sua impotenza di fronte a quella che gli appare come una crudele legge naturale.

Viene da domandarsi: in quale tipo di mondo questa convinzione confinerà il nostro ragazzo?

La risposta è affetta da un determinismo agghiacciante: un mondo nel quale, se nasci portato per una cosa, puoi farla, altrimenti è inutile che ti ci misuri perché, quand'anche ti piacesse farla, non avresti alcuna speranza di riuscirci.

Un mondo in bianco e nero in cui, insieme alla possibilità di riuscita, è vanificata la possibilità di misurarsi con una materia, di applicarsi allo studio di essa: o sei Mozart (o giù di lì) o, per quanto ti impegni, non potrai mai suonare il piano.

Un mondo in cui, se nasci con la fortuna di essere portato per le materie che ti piacciono o che ti preparano alla professione che vorresti esercitare o ti permettono di coltivare l’hobby che ti piace, sarai felice, o almeno realizzato, altrimenti ti barcamenerai con sforzi vani, prima a scuola, poi nel posto di lavoro e, nel caso degli hobby, anche nella vita privata.

Ma c'è di peggio. Poiché la maggior parte degli apprendimenti nella vita richiede uno sforzo iniziale, il rischio che corre il nostro ragazzo è quello di concludere, coerentemente con la sua convinzione, "se mi devo sforzare, vuol dire che non sono portato, altrimenti mi riuscirebbe facile" e di finire così per non applicarsi a niente.

Riassumendo.

Convinzione di partenza: "Per riuscire in una materia di studio devi essere portato".

I Corollario: "Se non sei portato è inutile che ti sforzi".

II Convinzione, derivata impropriamente dalle precedenti: "Se mi devo sforzare per studiare qualcosa, vuol dire che non sono portato".

Comportamento conseguente: al sopraggiungere di nuove situazioni che richiedono uno sforzo di apprendimento, "abbandono constatando che non sono portato".

Rinforzo: "ho abbandonato perché non sono portato e dunque non sarei mai riuscito." L'evitare di cimentarsi con la nuova materia, preclude effettivamente al ragazzo qualsiasi possibilità di riuscita, impedendogli di vedere falsificata la sua convinzione di partenza e rinforzandola indirettamente.

Fin qui siamo rimasti a livello di ragionamento e di logica, seppure una logica non ordinaria, e ci siamo limitati a riassumere come agisce la sua convinzione nel presente.

Potremmo spingerci più in là e considerare, per esempio, le emozioni che emergono da questa dinamica e dal suo reiterarsi.
Una per tutte, la frustrazione derivante dal senso di impotenza di fronte a qualcosa su cui non si ha potere di scelta: "o si è portati o non lo si è".

Qui sono in opera tutti gli ingredienti dell'impotenza appresa (cfr. gli studi di Martin Seligman): c'è un evento reiterato che è fuori controllo perché non dipende da me e questo evento mi espone a esperienze dolorose.

Così, pian piano, finisco con l’accettare con sempre maggior rassegnazione la condizione in cui mi trovo, finché la reiterazione delle esperienze fallimentari promuove la convinzione iniziale ad un livello logico superiore, quello dell'identità: "io non sono portato per quasi niente, dunque SONO UN FALLITO".

Ci fermiamo qui, nella speranza che questo esempio sia stato efficace nel rappresentare il potere che hanno alcune convinzioni limitanti di compromettere gravemente la qualità delle nostre vite.

La buona notizia è che possiamo disfarci delle nostre convinzioni limitanti attraverso un intervento di coaching mirato che articola coerentemente tecniche che agiscono sul piano emotivo così come su quello cognitivo, nei diversi livelli in cui i problemi e le opportunità si manifestano.

E, a proposito di convinzioni, la mia è che possiamo riuscirci!

lunedì 8 ottobre 2012

Pilotare un caccia o una riunione

Pensa ad una situazione recente in cui hai dovuto sostenere una conversazione su qualcosa che ti sta particolarmente a cuore di fronte a cinque o più persone. Una riunione di lavoro, ad esempio, o un confronto con la tua famiglia per prendere delle decisioni importanti, o una riunione di condominio.
Sapresti dirmi qual'era la tesi che hai sostenuto e, in linea di massima, le argomentazioni con le quali l'hai sostenuta? Sapresti anche menzionarmi le critiche che ti sono state mosse?
Probabilmente, sì.

Ora, sapresti dirmi dove erano seduti i partecipanti, come erano vestiti, in quale ordine hanno preso la parola, che postura avevano?

Se hai risposto sì alla domanda precedente, complimenti: sei un ottimo osservatore ed hai delle buone competenze relazionali!
Se non ti ricordi gli aspetti di cui sopra, domandati perché non li ricordi, mentre magari ricordi più o meno bene la tua tesi, le argomentazioni a supporto di essa e le critiche mosse.
 
Una spiegazione potrebbe essere perché, impegnato com'eri nel persuadere i partecipanti della bontà della tua tesi, non hai prestato attenzione ad altri particolari da te giudicati irrilevanti o non considerati affatto.
Possiamo affermare che, in questo caso, la tua attenzione fosse focalizzata, ovvero concentrata su un aspetto della situazione a scapito degli altri. Entro certi limiti, questo è inevitabile: possiamo concentrarci consapevolmente su poche cose alla volta e, per giunta, che non ci impegnino troppo; il mito del multitasking, alla luce delle più recenti ricerche scientifiche, si è rivelato, per l'appunto, un mito.

E' altrettanto vero che alcuni aspetti di una situazione che ci sembrano irrilevanti possono invece rivelarsi fattori critici per la buona riuscita di ciò che ci proponiamo di fare, purché siamo in grado di notarli e di utilizzarli.

Facciamo un esempio (si tratta di un caso reale, sebbene siano stati modificati alcuni particolari per non renderlo riconoscibile).

Sto per avanzare una proposta importante in una riunione di lavoro. Siamo ancora in piedi intorno al tavolo in attesa che giungano tutti i partecipanti. Posso decidere di isolarmi per ripassare i mei appunti su ciò che dovrò dire o "perder tempo" a guardarmi intorno.

Tenendo fede alla mia predilezione per le "perdite di tempo", opto per quest'ultimo comportamento e noto che la Responsabile delle Risorse Umane, che parteciperà alla riunione, ha una nuova acconciatura.
 
So che è una persona difficile da convincere e che il suo atteggiamento critico, unito al suo indubitabile carisma, potrebbero compromettere seriamente l'esito della riunione.

Ma so anche che, una volta che si sia persuasa, per quella stessa influenza che è capace di esercitare sugli altri, può rivelarsi la migliore alleata che si possa desiderare in un contesto come questo.
Si tratta comunque di una persona di grande intelligenza strategica, prevenuta rispetto ad eventuali lusinghe e tattiche "coperte". Ma poiché la conosco come persona di spirito, decido di giocarmi una carta.

Mi avvicino a lei sorridendo e le dico "Ero indeciso se dirtelo o no. Perché ho pensato: 'se le dicessi che ho notato che ha una nuova acconciatura e che mi piace questo nuovo taglio, potrebbe pensare che io ci voglia provare o, peggio, che la stia lusingando per averla dalla mia parte'. Ora, in effetti, credo che il nuovo taglio ti doni, ma non è la prima cosa che ho pensato quando l'ho notato. La prima cosa è stata: ci deve essere stato un cambiamento importante nella sua vita. Perché sai (sorridendo), è dimostrato che quando una donna cambia acconciatura in maniera così radicale, di solito c'è qualche cambiamento in vista.".

Non c'è niente di vero in questo, né tantomeno di dimostrato, ma il più delle volte funziona perché, anche se non c'è stato alcun cambiamento, la persona ci pensa un po' su e, si sa, "chi cerca trova"…

Lei sorride e mi risponde: "Be' sì, in effetti, qualcosa c'è, o meglio c'è stato. Grazie comunque, non ero convinta che questi capelli mi stessero bene."

"Di niente. In realtà, la mia è una lusinga. Come sai, ho sempre un secondo fine (sorridendo). E' che stavo leggendo i miei appunti e mi sono reso conto che c'è una falla nella mia posizione. Soltanto che non so individuarla con certezza. Ho qualche idea in proposito, ma adesso è troppo tardi, la riunione sta per iniziare. (pausa) Senti, ti chiedo un favore, puoi annotare quello che dico? E' importante che sia tu ad annotarlo: ho bisogno di capire come un'altra persona percepisce la mia proposta. Sai, a volte si vuol dire qualcosa e, senza volerlo, si finisce per dirne un'altra. Così dopo, se ti va, mi dai una mano a migliorarla. Ho bisogno della tua esperienza (breve pausa) e questa, naturalmente, è un'altra lusinga (sorridendo)."

"Va bene, cedo alla lusinga. Se vuoi, dopo la riunione vieni da me e ne parliamo."

Vedete come un particolare apparentemente insignificante, che non avrei notato se, invece di osservare i partecipanti, mi fossi concentrato sui miei appunti, si è rivelato uno spunto efficace per dare avvio ad una manovra che avrebbe trasformato una temibile avversaria in una preziosa alleata.
E così è stato.

Naturalmente, la manovra funziona per motivi che prescindono dall'osservazione sulla capigliatura.

C'è lo stratagemma dell'uccidere il serpente con il suo stesso veleno: se sono io a chiederti, come forma di aiuto, di mostrarti critica nei confronti della mia argomentazione, ristrutturo le tue critiche nelle utili osservazioni di una persona che è dalla mia stessa parte.

C'è lo stratagemma del mentire dicendo la verità: ti lusingo dicendo che ti sto lusingando e che questo ha sicuramente un secondo fine, ma te lo dico sorridendo, affinché questa incongruenza tra verbale e non-verbale ti lasci comunque "aperta" agli effetti ineludibili della lusinga ("Vanità! Il mio peccato preferito!", Al Pacino/Diavolo ne L'Avvocato del Diavolo).

C'è lo stratagemma di tenerti occupata a prendere nota di quello che dico per poterne poi parlare insieme, impendendoti così di intervenire continuamente, poiché ora sei certa che ci sarà un momento in cui potrai dire la tua su tutto quello che io sto proponendo.

C'è sicuramente tutto questo, ma a poco sarebbe servito se io non avessi colto quel particolare, apparentemente irrilevante, che mi ha permesso di avviare la manovra. E non avrei colto quel particolare, se non avessi sviluppato quella che in termini tecnici si chiama consapevolezza situazionale.

La consapevolezza situazionale (Situation Awareness) è stata definita da M.R. Endsley, uno dei suoi più importanti teorizzatori, come
"la percezione di elementi ambientali in una certa quantità di tempo e di spazio, la comprensione del loro significato e la proiezione del loro stato nel futuro prossimo".
Come si può arguire da questa definizione, si tratta di una capacità tattica e non stupisce che il termine sia stato utilizzato in questo senso, per la prima volta, in ambito militare dalle Forze Aeree degli Stati Uniti (USAF) a seguito dei combattimenti aerei nelle guerre di Corea e del Vietnam.

In particolare si è fatto ricorso a questa espressione per indicare la capacità, in un combattimento aereo a corto raggio (dogfight) tra caccia, di osservare la mossa attuale dell'avversario e anticipare quella successiva una frazione di secondo prima che l'avversario prevenga la nostra.

Il termine è stato poi adottato in diversi ambiti, compreso quello organizzativo, ma le caratteristiche della consapevolezza situazionale rimangono le tre definite da Endsley:
percezione, comprensione, proiezione.
In altre parole si tratta di:
  • percepire gli elementi della situazione ed il loro stato;
  • comprendere gli elementi e riconoscerne gli schemi in riferimento alla situazione e ai nostri obiettivi;
  • proiettare nell'immediato futuro le dinamiche tra gli elementi per comprendere come possano evolvere.
Si tratta di concetti che, con altro nome, riscontriamo in tutti i trattati classici di strategia ed in particolare in quelli orientali (Sūnzǐ, Sūn Bìn, I 36 Stratagemmi, etc.), ma anche in quelli occidentali, soprattutto ad opera dei fautori dell'approccio "indiretto" (Liddell Hart).

E' quello che il sinologo François Jullien chiama potenziale di situazione e che, a suo avviso, contraddistingue il concetto di efficacia nel pensiero cinese rispetto a quello occidentale. Mentre, infatti, per gli occidentali è efficace un'azione che forza uno stato di cose verso una situazione desiderata, in Oriente è efficace quell'azione che, a partire da uno stato di cose, riconosce in esso un potenziale di cambiamento e agisce su questo per far evolvere la situazione a proprio vantaggio.

Per tornare al nostro esempio, un approccio diretto sarebbe stato quello di cercare di convincere la Responsabile e i partecipanti contrapponendo la nostra tesi e i nostri argomenti ai loro. Secondo tale approccio, sarebbe stato poco importante concentrarsi su qualunque altro aspetto che non fosse pertinente alla nostra argomentazione.

L'approccio indiretto è consistito invece nell'individuare un elemento che avrebbe potuto far evolvere la situazione a nostro vantaggio: l'avere dalla nostra parte la Responsabile delle Risorse Umane.

E qui è entrata in gioco la consapevolezza situazionale, in primo luogo la rassegna consapevole e inconsapevole di tutto il "materiale" a nostra disposizione, tra cui la nuova acconciatura della Responsabile, gli schemi di comportamento noti della stessa (la sua intelligenza e la scarsa predisposizione alle lusinghe e alle tattiche "coperte"), l'individuazione di un'azione tattica adeguata (lusingare senza lusingare e prescrivere la critica) e la proiezione degli effetti che questa avrebbe avuto sulla situazione.

Ma come possiamo cominciare a sviluppare/allenare la consapevolezza situazionale? In un prossimo articolo ti fornirò alcuni suggerimenti in proposito (una manovra "indiretta" per farti premere il pulsante "Seguimi via e-mail" in alto a destra nel mio blog), ma sin d'ora puoi esercitarti a guardare un po' di più quello che hai intorno, capigliature comprese, anche se non vedi immediatamente come possa tornarti utile.

E mentre "perdi tempo" in queste osservazioni, come sempre, divertiti!
 

mercoledì 3 ottobre 2012

SOS - Sostenibilità degli Obiettivi Sentimentali (e non solo)

Se dovessi indicare qual è, nella mia esperienza, l'aspetto più critico di un obiettivo, direi sicuramente la sostenibilità.
Un episodio in particolare mi torna in mente come un monito che mi invita a prestare particolare attenzione a questo aspetto.
Muovevo allora i miei primi passi nel coaching ed una donna di circa quarant'anni si rivolse a me per avere supporto in una delicata questione sentimentale.
Lavorai con lei per circa tre quarti d'ora e, al termine della sessione, la cliente, sull'onda dell'entusiasmo, prese una decisione molto incauta.
Decise di dare un ultimatum al suo compagno e, se questi non avesse accettato le sue condizioni, lei avrebbe agito di conseguenza troncando la relazione.
Per quanto l'obiettivo mi sembrasse non sostenibile, confidai nella risolutezza mostrata dalla cliente nell'esprimere quella decisione: sembrava davvero sicura di sé. Considerando, poi, lo stato emotivo con cui si era presentata e la situazione davvero critica che stava vivendo, pensai che avrebbe tenuto fede ai suoi propositi.
Purtroppo accadde quello che accade spesso in questi casi: la cliente si rivelò sì capace di cominciare quanto si era proposta e diede anche l'ultimatum al suo compagno. Fu perfino capace di troncare la relazione quando questi dimostrò di non considerare affatto le sue condizioni. Per un po' riuscì a mantenersi salda nel suo proposito di non rivederlo più, ma dopo un paio di settimane non fu più in grado di sostenere emotivamente la “mancanza” di quell'uomo.
Lo chiamò di nuovo, giustificando a se stessa questa chiamata come un "chiarimento necessario". Cominciò con il chiedergli come potesse rimanere così imperturbabile di fronte alla cessazione repentina di una relazione che li coinvolgeva intensamente da tanto tempo. In breve, avviò nuovamente un dialogo con lui, gli propose di incontrarsi per parlare di persona e quando questo accadde, la passione ebbe la meglio e tutto riprese come prima.
A dire il vero: peggio di prima; poiché il fatto che lei fosse tornata sui suoi passi, lo confermò nell'idea che non potesse fare a meno di lui e che dunque non avrebbe dovuto impegnarsi particolarmente per tenerla legata a sé. In futuro, le manifestazioni di lei, anche quelle più eclatanti, sarebbero state interpretate come semplici sfuriate prive di serie conseguenze.

A partire da questa esperienza ho individuato alcune contromisure che voglio condividere con voi.
  • Valutiamo sempre la sostenibilità degli obiettivi, soprattutto quella emotiva.
    A tal fine possiamo cercare nel nostro passato esperienze analoghe e valutare come ci siamo comportati e quali emozioni sono entrate in gioco. Se tali esperienze sono state fallimentari, evitiamo però di scoraggiarci subito e rinunciare ai nostri propositi. Piuttosto, domandiamoci cosa possiamo fare di diverso questa volta perché le cose vadano nella direzione sperata.
    Se non abbiamo esperienze passate di riferimento, immaginiamo alcuni modi diversi in cui le cose possano andare ed associamoci emotivamente a questi scenari  (questa è forse la tecnica più complessa e talvolta giustifica il ricorso ad un coach).
  • Poniamoci obiettivi reversibili, dai quali possiamo tornare allo stato di partenza o correggere la rotta con un “costo” minimo.
    Per questo può rivelarsi utile frammentare l’obiettivo in micro-obiettivi che ci permettano di volta in volta di valutare la reazione delle persone coinvolte e la nostra reazione alla loro. Un po’ come quando, per baciare per la prima volta una persona che ci piace, ma della cui reazione non siamo totalmente sicuri, ci avviciniamo a lei quel tanto che basta per non esporci eccessivamente e poterci ritrarre nel caso in cui lei per prima lo faccia.
  • Teniamo sempre presente che essere in grado di avviare qualcosa non significa necessariamente essere in grado di mantenerla/concluderla o di saperne gestire le conseguenze. Si tratta di capacità qualitativamente diverse che richiedono la mobilitazione di risorse specifiche, come ad esempio la costanza e la perseveranza nel mantenere fede ai propositi, o la resilienza nella gestione delle conseguenze (anche in questo, un coach può esservi d’aiuto).
  • Coinvolgiamo in corso d’opera amici e sponsor positivi, registrando i progressi compiuti e premiandoci ad ogni piccolo micro-obiettivo raggiunto. Ricordate che la maniera più efficace di premiarci è quella di fare la più piccola cosa che faremmo se avessimo già raggiunto l’obiettivo finale.
Questi accorgimenti, pur essendosi più di una volta dimostrati utili, non ci danno garanzia assoluta di essere al riparo da tutti gli errori di valutazione.
Perciò, se nonostante tutto, non doveste ottenere i risultati sperati, ricordate la frase che Fred Astaire dice a Jack Lemmon nel film L’Affittacamere :  “Più sali in alto, più errori ti sono permessi.  Se ne hai fatti abbastanza, quando sei in cima, quello viene considerato il tuo stile”.

P.S. La cliente, dopo alcune vicissitudini e grazie ad un piccolo stratagemma, riuscì comunque a volgere la situazione a suo vantaggio. Ma questa è un'altra storia...

mercoledì 29 giugno 2011

Dialogo sull’autenticità e l’uso di stratagemmi

Il dialogo che segue è un compendio delle conversazioni sostenute con persone diverse in più di un workshop e sessione di consulenza personale. Pubblicandolo credo di fare cosa gradita a molti amici che hanno qua e là sollevato questioni analoghe. Devo una parte delle idee qui esposte ai miei Maestri e, in primo luogo, a Giorgio Nardone, virtuoso dello stratagemma.

La situazione è quella in cui un certo Ulisse illustra il ricorso agli stratagemmi come chiavi di sblocco, se non di soluzione, di situazioni problematiche.
Un certo Aiace, perplesso, prende la parola.

Aiace: Ma il ricorso a degli stratagemmi non mina la nostra autenticità?

Ulisse: Dipende: cosa intendi precisamente con “autenticità”?

Aiace: Be’: essere se stessi, non fingere di essere quello che non si è.

Ulisse: E come fai a sapere quando sei te stesso?

Aiace: Me ne accorgo, è semplice: so quando sono me stesso e quando fingo.

Ulisse: Hai ragione, ho posto male la domanda. Mettiamola così, allora: quando non sei te stesso chi o cosa sei?

Aiace: E’ ovvio: sono sempre io, che però sto fingendo, mi sto forzando.

Ulisse: E cos’è che stai forzando nello specifico?

Aiace: Sto forzando me stesso ad essere quello che non sono.

Ulisse: E chi è che sta forzando te stesso?

Aiace: (lievemente scocciato) Ma sempre io, chi altri?

Ulisse: Possiamo dire che c'è un te stesso, o una parte di te stesso, che vuole forzare un'altra parte di te stesso?

Aiace: Si è un po' così che accade.

Ulisse: E come fai a sapere chi dei due te stesso, o delle due parti, è più te stesso, e quindi più autentico, dell'altra?

Aiace: (ci pensa su) In effetti non è una questione banale. A primo acchito direi che la parte più autentica è quella con la quale mi identifico meglio, quella che sento più mia.

Ulisse: Se ho capito bene, di fronte ad una situazione che potrebbe implicare l'uso di uno stratagemma, in te si apre una sorta di conflitto. C'è un te stesso un po' "tarocco" che dice "Ehi, perché non usi quello stratagemma?" e un te stesso più autentico che risponde "Ma con chi credi di avere a che fare? Io non sono quel tipo di persona che ricorre a stratagemmi!".

Aiace: Sì, anche se non c'è davvero una lotta tra due parti di me: il più delle volte, semplicemente non applico nessuno stratagemma e faccio come mi viene spontaneo fare.

Ulisse: E riesci sempre nel tuo intento? Voglio dire, facendo quello che ti viene spontaneo riesci sempre a risolvere?

Aiace: No, ovviamente, no. Non sempre.

Ulisse: Ed è mai capitato che prevalesse la parte "tarocca"?

Aiace: Raramente, ma quando capita ho la sensazione di fare qualcosa che non va, che non mi appartiene. Insomma non mi viene spontaneo, mi devo forzare.

Ulisse: Capisco. Posso farti una domanda che ti sembrerà un po’ strana?

Aiace: Fai pure.

Ulisse: Quando eri piccolo, piccolo, diciamo… quando avevi un mese, cosa facevi se avevi fame?

Aiace: E chi se lo ricorda?

Ulisse: Presumibilmente?

Aiace: Be’ immagino che piangessi.

Ulisse: E cosa accadeva dopo?

Aiace: Veniva la mamma e mi dava il latte.

Ulisse: Possiamo affermare che il tuo comportamento si rivelava efficace per ottenere il cibo?

Aiace: Sì, ma quello è un comportamento innato, non è che piangessi consapevolmente con l’obiettivo di ottenere il cibo.

Ulisse: Infatti, ma poi è accaduto qualcosa, tra quel momento ed ora, per cui, presumo (sorride), adesso non piangi più per ottenere del cibo.

Aiace: (sorridendo) Sì, certo, a meno che non sia davvero affamato.

Ulisse: Adesso sei grande e ti comporti diversamente; ma quand’è che hai smesso di piangere per ottenere il cibo?

Aiace: Di preciso non lo so, non me lo ricordo.

Ulisse: Be’ non ha importanza la data, piuttosto che cosa è avvenuto, secondo te, perché tu smettessi di chiedere il cibo con il pianto?

Aiace: Che ne so, probabilmente ho imparato a parlare, a dire “pappa”, ad indicare con il dito. O forse i miei hanno cominciato a mostrarsi un po’ scocciati (sorride).

Ulisse: In ogni caso possiamo dire che qualcosa è cambiato in te (lo sviluppo di nuove capacità) o negli altri (i tuoi che si scocciavano) per cui il vecchio comportamento si è rivelato inefficace o almeno non economico.

Aiace: Sì, è così.

Ulisse: E tu, di conseguenza, hai adottato un nuovo comportamento più funzionale.

Aiace: O può anche essere stato un caso, magari ad un certo punto ho indicato la pappa o ho detto "pappa" ed i miei, tutti contenti, mi hanno dato la pappa.

Ulisse: Certo, le prime volte può essere accaduto tutto per caso, ma poi hai visto che funzionava meglio del pianto e hai cominciato a farlo di proposito.

Aiace: (annuisce)

Ulisse: E poi, (sorridendo) è successo qualcos'altro nella tua vita o questo è stato l'unico cambiamento?

Aiace: Sì, sono cambiate molte altre cose, da allora.

Ulisse: Chiaro: cambia il comportamento degli altri, cambiano gli stimoli ambientali o semplicemente il nostro modo di percepirli, sviluppiamo nuove capacità e cambiano anche i nostri comportamenti, le nostre idee, le nostre convinzioni. Per esempio, c’è qualcosa che credevi quando eri adolescente e a cui adesso non credi più?

Aiace: Be’, come tutti gli adolescenti, credevo di poter cambiare il mondo. Adesso… non è che non ci credo più, cioè, oggi credo di poter contribuire a rendere il mondo migliore, ma non nei modi in cui lo credevo allora.

Ulisse: E qualcosa su cui invece hai proprio cambiato idea? Anche non riferita all’adolescenza. Diciamo, in generale, nella tua vita. Ci sarà stata, immagino, qualche situazione di quelle che ti fanno cambiare totalmente idea su qualcosa.

Aiace: Vedo dove vuoi arrivare. Certamente, si cambia; ci sono molte cose che credevo vere e giuste e ora non le ritengo più tali, ma sulle cose importanti, quelle che contano di più per me, non ho mai cambiato idea. Su quelle sono rimasto sempre me stesso.

Ulisse: Certo, certo, è naturale ed è giusto che sia così. Infatti sono proprio queste cose importanti, queste cose che contano, a contribuire ad identificarti come la persona che sei.

Aiace: Sì, i miei valori, le cose in cui credo; su questi sono inamovibile.

Ulisse: Bene, riassumendo, tu senti di essere autentico quando sei in linea con i tuoi valori più costanti, con le cose in cui hai sempre creduto e cui non hai mai derogato nella tua vita.

Aiace: Sì. Se dovessi comportarmi in un modo che è in contrasto con i miei valori, non mi sentirei a posto, sentirei di star fingendo, di essere quello che non sono.

Ulisse: E questo perché il “non fingere” è proprio una di quelle cose importanti, che ti appartengono e ti caratterizzano.

Aiace: Esatto.

Ulisse: Ma non l’unica.

Aiace: Che vuoi dire?

Ulisse: Che ce ne sono altre che potrebbero rivelarsi più importanti. Immagino che ti sia capitato di dire qualche bugia bianca.

Aiace: Qualche volta, ma non è stato facile mentire.

Ulisse: Sono sempre situazioni difficili. In ogni caso, lo hai fatto. Magari perché in quel momento era in gioco qualcosa di più importante.

Aiace: Certo, se è in gioco il benessere o la vita di un'altra persona, sono anche capace di mentire. Ma non mi viene spontaneo.

Ulisse: Non può venirti spontaneo. E' una cosa che è contraria ai tuoi principi.

Aiace: Già.

Ulisse: Ora, cosa c'è nel ricorso ad uno stratagemma che contrasta i tuoi principi?

Aiace: (ci pensa un po') Be', proprio il fatto che non mi viene spontaneo. E' qualcosa di artefatto, capisci?

Ulisse: E tra i tuoi principi c'è quello di agire sempre spontaneamente.

Aiace: Sì, quando posso: ovviamente questo non è sempre possibile.

Ulisse: Ma torniamo a quando eri molto piccolo. Ad un certo punto hai imparato a usare la forchetta e il cucchiaio. Poi sei andato a scuola e hai imparato a leggere e a scrivere. Poi hai continuato ad apprendere cose nuove e così via...

Aiace: Sì.

Ulisse: E quando hai imparato ad usare il cucchiaio o a scrivere, ti è venuto subito spontaneo?

Aiace: No, all'inizio ho dovuto soffrire un bel po'. Soprattutto per imparare a scrivere.

Ulisse: Eppure adesso puoi scrivere anche senza guardare il foglio, puoi prender nota mentre stai ascoltando una persona e questo è senz'altro comodo, no?

Aiace: (sorride)

Ulisse: Ma all'inizio, no. All'inizio hai dovuto faticare e magari non ne vedevi neanche chiaramente l'utilità. E nonostante questo, hai continuato ad esercitarti, finché, un bel giorno, ti sei accorto che stavi scrivendo senza neanche pensare a come farlo. Anzi, forse non te ne sei nemmeno accorto: è successo e basta.

Aiace: Certo, a forza di sbatterci la testa…

Ulisse: Con l'esercizio, ci sei riuscito. Con l'applicazione, una cosa che non ti riusciva spontanea, improvvisamente, lo è diventata; a tal punto che oggi non ci pensi su due volte ad appuntarti un numero di telefono o un indirizzo su un post-it. Voglio dire non c'è una parte di te che dice "Ehi, scrivere non è spontaneo; tra i tuoi principi c'è 'evita di fare cose che non ti vengono spontanee'!" e la parte autentica "Va bene smetto subito!". Sto scherzando naturalmente.

Aiace: capisco. Tu dici che ogni cosa, all'inizio, quando cominciamo a farla, è tutt'altro che spontanea. Solo con l'esercizio costante lo diventa. Però…

Ulisse: Però?

Aiace: Perché, per quanto riguarda la scrittura, la lettura, e le cose che hai menzionato, questo mi pare naturale, invece per lo stratagemma… per lo stratagemma, c'è qualcosa in me che si rifiuta?

Ulisse: Vediamo; a cosa ti fa pensare la parola "stratagemma"?

Aiace: A qualcosa di innaturale, appunto. Una specie di imbroglio. Insomma, perché mai uno dovrebbe far ricorso ad uno stratagemma, non si può agire "spontaneamente"? Sì lo so che non c'è niente di spontaneo che non sia stato acquisito in un modo o nell'altro. Ma, intendo dire, non si può agire in maniera diretta? Perché dovrei fari ricorso a dei sotterfugi?

Ulisse: Qual è per te la maniera diretta?

Aiace: Be' quella che mi viene naturale, spont... (si interrompe) Ho capito: la maniera diretta, anche quella, non sarebbe altro che un comportamento acquisito, appreso…

Ulisse: E magari all'inizio non era affatto diretta o spontanea.

Aiace: Eppure…

Ulisse: Quando sei di fronte ad una situazione problematica, ti viene spontaneo agire come hai sempre fatto: quella che hai chiamato "la maniera diretta"; che hai comunque appreso, ma che ora ti viene naturale, spontanea. E, se lo è diventata, è anche perché l'hai applicata con successo in molte situazioni: si è rivelata efficace. Ed infatti io non ti sto suggerendo di abbandonarla, ma di prendere in considerazione le situazioni in cui quella maniera non si rivela efficace. Tu fumi? (ndr e questo toglie ogni dubbio sul fatto che si tratti di quell’Ulisse e quell’Aiace)

Aiace: No.

Ulisse: Hai mai provato a dire ad un fumatore di smettere di fumare? Magari a qualcuno che soffre anche di cuore? Sarebbe, per così dire, "la maniera diretta", tu glielo dici, lui riconosce che è sbagliato fumare nelle sue condizioni e smette di farlo. In quanti casi credi che funzionerebbe?

Aiace: Nessuno.

Ulisse: Forse nessuno no. Ma certamente in pochi casi. La maggior parte delle persone che fumano è ben conscia dei danni che provoca alla salute, propria e degli altri. Ma c'è qualcosa che è più forte di questa argomentazione logica. C'è qualcosa che apparentemente sembra non seguire nessuna logica, ma che forse segue soltanto una logica diversa, una logica cui non siamo “abituati”, una logica, appunto, "non ordinaria". Ora, cercare di applicare a in questi casi "la maniera diretta", l'argomentazione comune, quella che ci viene spontanea, porterebbe ad un sicuro fallimento, non aiuterebbe affatto la persona e forse peggiorerebbe addirittura la situazione. Come togliere un chiodo dal muro usando una livella. Dobbiamo dotarci dello strumento giusto… e gli stratagemmi ce ne offrono una vasta gamma. Dunque perché non cominciare ad utilizzarli ed applicarsi con costanza finché non diventino anch'essi spontanei, finché non diventino parte di noi? Del resto, con le parole del terapeuta Giorgio Nardone “La spontaneità non è che l’ultimo apprendimento divenuto acquisizione”.

Aiace: Ma facendo così non si finisce per diventare subdoli, doppi… insomma troppo "costruiti"?

Ulisse: Cos'è che rende subdola una persona, le intenzioni o i mezzi che utilizza?

Aiace: Le intenzioni, certo, ma anche il fatto di possedere i mezzi, può indurci in tentazione.

Ulisse: Sì, è il rischio che dobbiamo correre. Del resto hai accettato già di correrlo quando hai imparato a parlare o, peggio, a scrivere, è risaputo infatti che "ne uccide più la penna che la spada". Non si può tornare indietro e neanche evitare di andare avanti mentre tutto il resto cambia. Sei naturalmente libero di imparare gli stratagemmi e di utilizzarli per aiutare persone in difficoltà (o anche te stesso) oppure tenertene alla larga privandoti di questa possibilità.

mercoledì 9 marzo 2011

Perché ritengo criminale Il Segreto

Il Segreto, una delle più grandi e purtroppo diffuse imposture confezionate dall’industria del wellness, appiattisce in una misera “formula” la fine opera di mistici, alchimisti, scienziati, letterati e filosofi.
La legge dell’attrazione, così come esposta in quel testo e nei testi che di esso sono codazzo (La chiave del Segreto, Il Segreto della Chiave del Segreto, etc.), è un’approssimazione molto grossolana di concetti che appartengono a ben più nobili tradizioni.

L’idea presentata in The Secret è quella di un universo, ma sarebbe meglio scrivere Universo, che si organizza intorno ai nostri desideri e ai nostri pensieri.
Nel video The Secret, questa idea è brutalizzata dall’esempio di un tizio che si siede in poltrona un tanto al giorno mimando di guidare l’auto dei suoi sogni. Secondo gli autori, l’Universo “accoglierebbe” questa fantasia e si disporrebbe a concretizzarla.
Fin qui niente di male, la tesi, come del resto molti aspetti della nostra vita, non è falsificabile: qualcuno ci crede, altri la trovano risibile, e tutto sommato, anche per quelli che non ci credono, potrebbe rivelarsi efficace indipendentemente dalla sua scientificità in virtù dell’effetto “profezia che si auto-avvera” o dell’effetto Pigmalione.
Resterebbe, certo, da distinguere tra il desiderio di apparire più carismatico, che potrebbe, in talune circostanze, aiutarmi a diventarlo, ed il desiderio di saper guidare un aereo che, senza un adeguata formazione, finirebbe per danneggiare me stesso e gli altri.
Dobbiamo comunque, per onor del vero, prendere atto del fatto che nessuno, nel video o nel libro, sostiene che si possa imparare a volare immaginandolo o mimandolo seduti comodamente in poltrona (e questo lo sapevano già gli autori del proverbio “aiutati che Dio ti aiuta”).

Ma torniamo al tizio dell’automobile e supponiamo che questi, non appena l’Universo abbia esaudito il suo desiderio, investa involontariamente un pedone e lo uccida.
Viene da domandarsi: intorno a cosa l’Universo si è organizzato in questo caso?
Si potrebbe rispondere che non sempre l’Universo si organizza intorno ai desideri di qualcuno, a volte decide per conto suo e quel giorno ha deciso così. O ancora potremmo pensare che qualcuno desiderasse al morte di quella persona (non esclusa la persona stessa) e che l’Universo l’abbia accontentato. O ancora che quella morte abbia un senso, un’utilità che soltanto l’Universo conosce. O ancora che talvolta l’Universo non entri proprio in causa.
Altre ipotesi si possono formulare, tutte equiprobabili, anzi, tutte ugualmente a-probabili, dal momento che non è possibile verificarne la fondatezza (e mi preme qui ricordarvi che a scrivere non è uno strenuo difensore della scienza, ma una persona che annovera tra i suoi interessi lo sciamanesimo ed i tarocchi e che è piuttosto critico nei confronti di chi considera il metodo scientifico l’unico degno di rispetto).

La questione su cui vi invito a riflettere è come – e se - raccontereste la legge dell’attrazione ad un bambino affetto sin dalla nascita da una grave malattia (il paragone estremo mi è suggerito dallo stesso Segreto, in cui si portano esempi di guarigioni miracolose da malattie ritenute incurabili).
Immagino già la risposta di alcuni sostenitori del Segreto: “gli direi che se vuole, se è davvero sua intenzione guarire, allora può farlo”. Niente da obiettare, anzi, il proposito è meritorio. Ma la mia considerazione non riguarda come agirebbe la legge dell’attrazione d’ora in poi se lui lo volesse, bensì come ha agito a partire dalla sua nascita per portarlo al punto in cui sta adesso (rinunciando per ora a scomodare le vite passate che pure qualcuno tirerebbe in ballo).
Immagino ancora che i sostenitori obiettino “cosa importa sapere e, ancor meno, far sapere al bambino come è arrivato a star male? L’importante è che sappia che, se lo desidera davvero, può guarire”.
E ancora una volta devo concordare sulla buona intenzione, ma ammesso che al bambino sia meglio non rivelare il modo in cui l’Universo si sarebbe organizzato affinché lui nascesse malato, lo sarebbe anche per noi?
Intendo dire, sarebbe meglio non indagare oltre ed ammettere dunque che l’Universo segue logiche imperscrutabili e del tutto diverse da quelle che noi possiamo immaginare (ipotesi di tutto rispetto purché rimanga nell’ambito della religione e non pretenda di sconfinare in quello della fisica dei quanti), oppure dovremmo trovare, o almeno tentare di trovare, una qualche risposta soddisfacente alla questione, che, pur nel suo prescindere da una forma di scientificità, non faccia vistosamente a pugni con essa?

A questo punto mi fermo perché coloro che abbiano “sprecato” un po’ del tempo della loro vita su un testo di filosofia, di teologia o più semplicemente siano stati per qualche minuto sotto una pergola a parlare di qualcosa di diverso dalla Lazio e dalla Roma, non faticheranno a riconoscere che l’intera questione altro non è, scomodando Guccini, che un “dire cose vecchie con il vestito nuovo” o più correttamente, considerando il business che c’è dietro al Segreto, un vendere cose vecchie con il vestito nuovo.
Le “cose vecchie” sono rappresentate in questo caso dall’ossessione di poter avere il pieno controllo sulla propria vita e sul proprio destino, con tutte le implicazioni che la vexata quaestio circa l’origine e il posto che avrebbe il “male” (o quanto consideriamo tale) nell’universo, pone.
Il "vestito nuovo", invece, è una discutibile vulgata della fisica dei quanti, materia che, per sua natura, pare si presti ad ogni utilizzo, proprio ed improprio, dal momento che chiunque può dirne qualsiasi cosa, tanto nessuno ci capisce niente (e ad affermarlo non sono io ma nientemeno che Richard Feynman).
Ben inteso, nessuno vuole negare le immense prospettive che questa branca della fisica ha aperto e continua ad aprire, ma io, in buona compagnia, credo che sia necessario essere cauti nel procedere ad arbitrarie trasposizioni che pretendano di essere qualcosa di più di calzanti metafore.

Comunque, a prescindere dalla liceità di queste operazioni, sorprende l’effetto straordinario che tale “riverniciatura” sortisce su quelle stesse persone che, soltanto a titolo di esempio, ritengono la religione cristiana ed il suo Dio una (tutt’al più) bella invenzione, ma non esitano un solo istante ad assumere per reale e provato l’Universo di The Secret.
Spesso sono gli stessi che “scoprono”, leggendo l’ultimo successo commerciale sull’argomento, che Gesù aveva fratelli. “Meraviglia! E la Chiesa ce lo aveva sempre tenuto nascosto!” Inutile far notare loro che era così ben nascosto che bastava leggere, neanche tanto attentamente, i vangeli o le epistole di Paolo per nutrire qualche sospetto in merito.
Riguardo alla Chiesa poi, il dibattito era aperto dalla notte dei tempi e niente affatto segreto; ma quanto più affascinante l’ipotesi del complotto, dell’occultamento, del segreto.
Il Segreto, appunto.
Del resto basta dare un’occhiata anche solo al trailer di The Secret che echeggia Codici da Vinci e Indiana Jones e Templi Maledetti e Egizi e Templari e Cagliostri e Cabalisti e Gnostici e Alchimisti in una confusa baraonda di personaggi, attribuzioni, verità e misteri.

Azzardo che dietro il successo di The Secret e di altre operazioni simili si celi l’insana convinzione dell’uomo contemporaneo di poter accedere al suo potenziale simbolico attraverso un atto di appropriazione.
In altre parole, imparo a piegare l’Universo al mio volere, lo posseggo, lo governo. L’esatto contrario di quanto tutte le grandi tradizioni, a cui, tra l’altro, The Secret sostiene di ispirarsi, hanno manifestato da sempre ed in alcuni casi “praticato” e cioè la possessione dell’uomo da parte del simbolo.

L’uomo non ha il pieno controllo della propria vita e fargli ritenere di poterlo avere è criminale poiché lo carica di una responsabilità insopportabile che, ad un’attenta disamina, sconfina nella colpa

(si pensi ad esempio all’apparentemente innocuo desiderio, concretizzato dall’Universo, di veder volare una farfalla e al conseguente tsunami che il battito d’ali di quest’ultima finisce per provocare dall’altra parte del mondo: il cosiddetto “butterfly effect”).

Forse, invece, faremmo bene ad attenerci all’invito di Nietzsche e a non caricare l’uomo di pesi che non può sopportare; inaugurando, in questo modo, un’epoca di maggiore delicatezza nei confronti di noi stessi e degli altri.

sabato 8 novembre 2008

Una testa ben fatta...

Potremo dire di aver compreso a fondo il pensiero di Montaigne secondo cui "è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena", soltanto quando sapremo accogliere quello che così bene Gaber ha saputo esprimere in questa canzone.

giovedì 23 novembre 2006

Motivando

Nel film Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton ci sono alcuni dialoghi degni di nota. Tra questi, mi è piaciuto particolarmente quello tra Frank, studioso di Proust che ha tentato il suicidio per amore di un suo studente, e Dwayne, suo nipote. Quest’ultimo ha appena scoperto, con suo grande dolore, di essere daltonico e di non poter partecipare al programma per diventare pilota di aerei militari.
E’ opportuno premettere che il papà di Dwayne è un motivatore di professione, il quale, oltre a non motivare nessuno, non riesce neanche a comunicare efficacemente con la sua famiglia.
Eppure, dove non sarebbe riuscito il papà, che avrebbe probabilmente ripetuto un discorso stereotipato su come il mondo si divida in vincitori e perdenti (durante il film parla spesso in questi termini), riesce inaspettatamente lo zio con una ristrutturazione da manuale.
A Dwayne che esprime il desiderio di voler dormire fino a diciotto anni per ‘saltare’ le scuole superiori e tutto il resto, lo zio risponde che Proust, decisamente un perdente, affermava che i migliori momenti della sua vita erano stati quelli in cui maggiormente aveva sofferto; a questi momenti doveva infatti quello che c’era di meglio in lui.
Frank conclude domandando al nipote “Così vorresti dormire fino a diciotto anni? Pensa a tutta la sofferenza che ti perderesti. Le scuole superiori sono gli anni in cui si soffre di più! Non riusciresti a soffrire meglio che in questi anni”.
Inutile dire che Dwayne non trova alcuna difficoltà a convincersi di quanto lo zio gli sta dicendo e decide di frequentare le scuole superiori.Un’ultima cosa, se andrete a vedere il film, che è ancora in programmazione nelle sale, godetevi la parodia del motivatore che non smette mai di fare (male) il suo mestiere: è un buon ammonimento per quelli che, come me, esercitano una professione analoga, oltre che un invito a saper ridere di alcune nostre deformazioni professionali.