lunedì 29 ottobre 2012

Non sono portato - gli effetti deleteri di una convinzione limitante

Le convinzioni danno direzione alla nostra vita e contribuiscono a conferirle un senso, ma quando si tratta di convinzioni limitanti possono peggiorarne la qualità.


Giorni fa mi è capitato di ascoltare una conversazione tra mio figlio, di tredici anni, e due suoi compagni di scuola.
Parlavano di materie scolastiche e del rendimento di altri loro compagni.
Un frammento di conversazione mi è rimasto impresso e lo riporto di seguito il più fedelmente possibile; inflessione romanesca compresa!

"Oh, oggi M. ha preso quattro all'interrogazione di matematica."
"Ma quello non è proprio portato pe' la matematica."
"Certo che mo' quando j'o dice ar padre..."
"Lo so, ma se non sei portato, c'hai poco da fa'! Io per esempio c'ho lo stesso problema coll'italiano. Non j'a faccio proprio!"

E la conversazione è continuata per un po', con variazioni minime sul tema "essere portati per una materia" e relative conseguenze.

Per la mia professione ed anche per l'attenzione che presto alle conversazioni, mi capita continuamente di constatare quanto le convinzioni entrino in gioco nei nostri processi decisionali così come nei giudizi che esprimiamo su di noi e sugli altri.

Sicuramente le convinzioni danno direzione alla nostra vita e contribuiscono a conferirle un senso. Ma quando, come in questo caso, si tratta di convinzioni limitanti, queste possono peggiorare la qualità della vita delle persone che ne sono "portatrici".

Esaminiamo per un attimo la convinzione che hanno espresso i nostri ragazzi.
Potremmo formularla pressappoco così:

Per riuscire in una materia di studio devi essere portato.

Notate che ho scritto "riuscire" e non "avere successo" e questo è suggerito dalle espressioni "c'hai poco da fa'" e "non j'a faccio proprio", con le quali uno dei ragazzi esprime tutta la sua impotenza di fronte a quella che gli appare come una crudele legge naturale.

Viene da domandarsi: in quale tipo di mondo questa convinzione confinerà il nostro ragazzo?

La risposta è affetta da un determinismo agghiacciante: un mondo nel quale, se nasci portato per una cosa, puoi farla, altrimenti è inutile che ti ci misuri perché, quand'anche ti piacesse farla, non avresti alcuna speranza di riuscirci.

Un mondo in bianco e nero in cui, insieme alla possibilità di riuscita, è vanificata la possibilità di misurarsi con una materia, di applicarsi allo studio di essa: o sei Mozart (o giù di lì) o, per quanto ti impegni, non potrai mai suonare il piano.

Un mondo in cui, se nasci con la fortuna di essere portato per le materie che ti piacciono o che ti preparano alla professione che vorresti esercitare o ti permettono di coltivare l’hobby che ti piace, sarai felice, o almeno realizzato, altrimenti ti barcamenerai con sforzi vani, prima a scuola, poi nel posto di lavoro e, nel caso degli hobby, anche nella vita privata.

Ma c'è di peggio. Poiché la maggior parte degli apprendimenti nella vita richiede uno sforzo iniziale, il rischio che corre il nostro ragazzo è quello di concludere, coerentemente con la sua convinzione, "se mi devo sforzare, vuol dire che non sono portato, altrimenti mi riuscirebbe facile" e di finire così per non applicarsi a niente.

Riassumendo.

Convinzione di partenza: "Per riuscire in una materia di studio devi essere portato".

I Corollario: "Se non sei portato è inutile che ti sforzi".

II Convinzione, derivata impropriamente dalle precedenti: "Se mi devo sforzare per studiare qualcosa, vuol dire che non sono portato".

Comportamento conseguente: al sopraggiungere di nuove situazioni che richiedono uno sforzo di apprendimento, "abbandono constatando che non sono portato".

Rinforzo: "ho abbandonato perché non sono portato e dunque non sarei mai riuscito." L'evitare di cimentarsi con la nuova materia, preclude effettivamente al ragazzo qualsiasi possibilità di riuscita, impedendogli di vedere falsificata la sua convinzione di partenza e rinforzandola indirettamente.

Fin qui siamo rimasti a livello di ragionamento e di logica, seppure una logica non ordinaria, e ci siamo limitati a riassumere come agisce la sua convinzione nel presente.

Potremmo spingerci più in là e considerare, per esempio, le emozioni che emergono da questa dinamica e dal suo reiterarsi.
Una per tutte, la frustrazione derivante dal senso di impotenza di fronte a qualcosa su cui non si ha potere di scelta: "o si è portati o non lo si è".

Qui sono in opera tutti gli ingredienti dell'impotenza appresa (cfr. gli studi di Martin Seligman): c'è un evento reiterato che è fuori controllo perché non dipende da me e questo evento mi espone a esperienze dolorose.

Così, pian piano, finisco con l’accettare con sempre maggior rassegnazione la condizione in cui mi trovo, finché la reiterazione delle esperienze fallimentari promuove la convinzione iniziale ad un livello logico superiore, quello dell'identità: "io non sono portato per quasi niente, dunque SONO UN FALLITO".

Ci fermiamo qui, nella speranza che questo esempio sia stato efficace nel rappresentare il potere che hanno alcune convinzioni limitanti di compromettere gravemente la qualità delle nostre vite.

La buona notizia è che possiamo disfarci delle nostre convinzioni limitanti attraverso un intervento di coaching mirato che articola coerentemente tecniche che agiscono sul piano emotivo così come su quello cognitivo, nei diversi livelli in cui i problemi e le opportunità si manifestano.

E, a proposito di convinzioni, la mia è che possiamo riuscirci!

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